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Castello di Simigni

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Fu Seminio dei conti di Collazzone a fondare nel 1103 il castello di Simigni, che venne poi fortificato nel 1322 con la costruzione di una torre e di possenti mura difensive. Adagiato sulle colline che digradano verso Bastardo, vanta una posizione davvero unica; dalle sue mura la vista spazia sui Monti Martani, sulle colline di Gualdo Cattaneo, fino a raggiungere la valle umbra. Curiosa la storia della sua conquista nel 1363 da parte della Compagnia del Cappelletto, che dopo avere conquistato San Gemini ottenne dal comune di Todi 1000 fiorini affinché lasciasse quei luoghi. Questa Compagnia dal nome davvero buffo era formata da rampolli della nobiltà italiana in cerca di avventure e di gloria; nel dicembre 1363, appena liberato dalla prigionia senese, Nicolò da Montefeltro, capitano della compagnia, cercò di raggiungere i compagni che erano accampati presso Simigni, nel tentativo di rifugiarsi, ma venne catturato dai todini e rinchiuso nel carcere.
Il borgo passò poi ai Trinci di Foligno e nel 1410 al famigerato Braccio Fortebraccio da Montone, poi nuovamente ai Trinci e da questi agli Atti. Molti feudi, in quel particolare momento storico, erano soliti passare dai Trinci ai Fortebracci e viceversa, un vero gioco di contese. Il castello passò poi sotto la giurisdizione addirittura dell'abbazia cistercense di Chiaravalle e, successivamente eretto a contea, ebbe per signore il conte Federico di Simigni. Nel 1645 fu riacquistato dagli Oddi di Todi e all'inizio del ‘600 fu proprio il priore tuderte Benigno Degli Oddi ad apportare abbellimenti e restauri di notevole significato. Il castello negli ultimi decenni è passato attraverso diversi proprietari tra cui la famiglia Bonadies di Roma.

Approfondimenti e curiosità

La compagnia del Cappelletto

La Compagnia del Cappelletto è un'importante compagnia di ventura formata prevalentemente da mercenari italiani, che operò nel XIV sec. in Italia. Era conosciuta anche con il nome di Compagnia Nera, venne fondata nell'agosto del 1362 ad Ossaia, da Niccolò da Montefeltro insieme ad alcuni venturieri che erano al servizio del comune di Firenze, dissidenti nei confronti del loro capitano. Il nome dato alla compagnia trasse origine dall'episodio che accadde in seguito alla presa del paese di Peccioli, in cui i venturieri in segno di protesta verso i fiorentini per il mancato raddoppio delle paghe, posero i loro cappelletti sulla lancia. Fu la prima compagnia di ventura ad essere formata da venturieri italiani; alla sua nascita, la Compagnia del Cappelletto capeggiata da Niccolò da Montefeltro, ebbe a disposizione circa 1000 cavalieri (italiani, borgognoni e tedeschi), vi affluirono poi numerosi altri condottieri. Nel 1363, fu al servizio di Firenze, per la quale guerreggiò contro Pisa e Siena, devastando e depredando tutte le località attraversate. Dopo alcune sconfitte la compagnia ne uscì distrutta e dispersa e molti poi furono i fuoriusciti. Nel 1365, la compagnia venne sciolta perché da tempo inattiva e confluì nella Compagnia di San Giorgio, e lottando contro Firenze, Siena e lo Stato della Chiesa.

Braccio Fortebraccio da Montone, capitano di ventura e Signore di Perugia
La vita e le imprese di Braccio si inseriscono in quel clima di contese, intrighi e lotte di potere che coinvolse le città dell'Umbria tra Medioevo e primo Rinascimento, cui spietatezza, sagacia militare, coraggio e spirito di avventura erano indispensabili al successo, e prima ancora alla sopravvivenza.
Partito con pochi uomini, in appena un quarto di secolo, Braccio divenne Signore di Perugia e di un vasto territorio che comprendeva quasi tutta l'Umbria e parte delle Marche, dell'Abruzzo e del Lazio, arrivando a Nord a Bologna. L'idea che arrovellava la testa del Capitano era quella della creazione di uno stato dell'Italia Centrale staccato dal potere Pontificio riducendo sempre più i confini della Chiesa ed al tempo stesso divenendone egli signore. Con le sue gesta tra realtà e leggenda, Braccio seppe crearsi intorno un'aura di timore e rispetto. La sua durevole fama di uomo audace, astuto, crudele e ambizioso, arrivò persino al Manzoni che nella tragedia "Il conte di Carmagnola" (1816) lo ricorda col verso: "per tutto ancora con maraviglia e con terror si noma".
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